Per la meditazione di oggi propongo di partire da questo brano del Vangelo di Giovanni (Gv 1,35-51), cercando però di leggerlo collocandolo nel contesto più ampio di tutto il racconto evangelico ― non solo del Vangelo di Giovanni ― e sullo sfondo dell’intera azione di Gesù. E prendere il tutto come un paradigma (uno dei tanti possibili) per riflettere intorno alla “pastorale giovanile e vocazionale”, che ora, all’interno della Congregazione, chiamiamo “Missione con i giovani”.

Il brano in questione viene definito, per tradizione, la “chiamata dei primi 5 discepoli”: i primi due, già discepoli del Battista (uno era sicuramente Andrea, come lo stesso testo dice, l’altro era probabilmente Giovanni), Pietro, Filippo e Natanaele. Benchè il Vangelo di Giovanni sembri presentare la cosa come se questo fosse il primo incontro tra Gesù e questi personaggi, è plausibile pensare, stando anche agli altri Evangelisti, che almeno per alcuni di questi non si trattasse del primo contatto con Gesù. Gesù probabilmente frequentava già i circoli creatisi attorno al Battista, bazzicava per le rive del Giordano, aveva sicuramente avuto già contatti con alcuni di loro. Gesù “chiama”, e questi uomini rispondono. Un primo elemento che potremmo mettere in risalto è il legame tra una “pastorale” (giovanile? Diciamo pure di sì… alcuni di questi erano di sicuro dei giovani) e la proposta vocazionale. Una proposta vocazionale è difficile che piombi dall’alto, all’improvviso, senza avere un fondamento; anche nei brani dei Vangeli in cui si vede Gesù che chiama delle persone c’è sempre un retroterra almeno di conoscenza di Gesù; Gesù non è mai un “perfetto sconosciuto” per queste persone. Una proposta vocazionale si innesta su una pastorale previa, fatta di cura della persona, di approfondimento di una relazione, di una conoscenza anteriore, da un annuncio che precede e prepara la chiamata, fino a farla manifestare chiaramente. Ciò significa pure che, vedendo l’azione di Gesù, non esiste una pastorale che non contenga in sé anche i presupposti di una chiamata. In altre parole: ogni tipo di pastorale, di missione, è di per sé “pastorale vocazionale”; non è concepibile un annuncio che non porti poi le persone ad incontrare il progetto di Dio su di loro e non le aiuti poi a incarnare questo progetto. Non solo la missione con i giovani, ma qualsiasi tipo di ministero: avvicinare le persone a Dio significa far loro scoprire anche ciò che Dio chiede loro.

L’altro elemento che mi sembra interessante è la modalità di Gesù. Ha di fronte persone diverse, ed adatta la sua azione calibrandola sulle persone concrete che ha davanti. Con ognuna di loro ha un approccio diverso, in base a ciò che a queste persone serve. Con ognuno cerca e crea “l’entrata giusta”, il varco per entrare in contatto, i punti di inserzione per arrivare al cuore di queste persone.

Ai primi due, già discepoli del Battista, con una “formazione” potremmo dire già “solida”, “avviata”, che in qualche modo già conoscevano un poco di “teoria”, propone di vivere un’esperienza. Basta con la teoria, basta con la formazione, adesso si tratta di sperimentare concretamente sulla propria pelle cosa significano certe cose. Facendoli entrare in casa sua, Gesù li porta in un luogo abitato da Lui, dove si può sperimentare tutta la forza di quella presenza, di quella intimità fatta di un dialogo personalizzato, di condivisione profonda della vita, del sedersi allo stesso tavolo, ecc… Al tempo stesso, questa condivisione ―proprio perché non è teoria ma esperienza― non è fatta solo di “Gesù che dà o dice loro delle cose”, ma dallo scambio reciproco della vita. La vita di queste due persone entra a contatto con un luogo abitato da Dio: l’esperienza che fanno è di vedere la loro vita perfettamente incastrata nella vita di Dio, ed è una esperienza vocazionale: capiscono che la loro vita ha senso e trova pienezza in quello spazio, in quel progetto, in quel futuro abitato da Dio.

Questo ribadisce l’importanza, per noi, di saper proporre ai giovani questi “luoghi abitati da Dio” per far loro vivere una esperienza simile; luoghi in cui i giovani possano vedere se la loro vita ―o meglio, “dove” la loro vita ―si incastra bene. Questi luoghi sono quelle famose comunità “venite e vedete” di cui almeno in Italia si parlava già 15 anni fa. In Provincia abbiamo alcune comunità chiamate ad essere questi luoghi, ma non basta. Bisogna creare spazi ―reali, non edulcorati― in cui i giovani possano essere messi a contatto anche con la nostra esperienza carismatica: un nostro modo di vivere la comunità, la pastorale ordinaria, la missione con le sue sfide e la sua audacia, lo svago… In Italia come in Spagna, in Senegal come in Venezuela, Romania o Sahara.

Questo per quanto riguarda i primi due discepoli.

Con Pietro Gesù cambia atteggiamento. Sappiamo che lo farà “pescatore di uomini”, valorizzando ciò che Pietro già sa fare. Con lui, e con Andrea e poi con gli altri, Gesù parte dai talenti, dalle qualità, dalle loro passioni. Pensiamo ai tanti hobby, alle grandi capacità dei giovani, in ogni campo: artistico, sportivo, musicale, il fai-da-te, ecc…

Con Natanaele, p.e., Gesù usa la cultura per entrare nella sua vita; trova nella sete di sapere, nella curiosità di Natanaele il varco per entrare. Con Filippo, che è un semplice, gli basta invece poco… Filippo è uno che si fida, che non oppone molte resistenze, è un giovane dalla “spiritualità semplice”, e Gesù usa quest’altro tipo di approccio, della “semplicità”, della vicinanza, dell’amicizia.

Noi siamo più o meno bravi ad “offrire” ai giovani la nostra vita, le nostre cose, la nostra spiritualità, le cose di Dio… ma quanto permettiamo ai giovani di “offrirci” anche le loro cose? Quanto permettiamo che i giovani condividano con noi i loro interessi, le loro passioni, le cose che a loro piacciono? Le cose che a loro accendono il cuore, che li fa vibrare? Anche in senso vocazionale… Troppo spesso vedo che dai giovani si pretende una “rottura” con la vita precedente; ma non credo che sia giusto, a meno che non si tratti di cose proprio inconciliabili con il Vangelo. Conversione non sempre significa “rottura” obbligatoria con la vita precedente, ma orientare ciò che si vive a Dio, dargli un’altra direzione, un altro verso, un altro significato (è proprio ciò che Gesù fa con i “pescatori” del lago di Tiberiade). Per cui, tante volte, dovremmo anche noi essere un po’ più bravi a non trincerarci dietro la nostra spiritualità, e cercare di conoscere un po’ di più il mondo giovanile, incluso le sue mode, le sue tendenze, le sue storture… perché è in questo mare che i giovani vivono, ed è nel mare che si pesca, è in questo mare che siamo “pescatori di uomini”… i pescatori che non conoscono il mare dove pescano non possono essere buoni pescatori; se aspettiamo che i giovani escano prima da questo mare, ossia che i pesci vengano loro a riva, moriremo presto. Bisogna conoscere il “mare” in cui si pesca; spesso i giovani sono immersi nelle profondità più remote di questo mare, ed è lì che “vanno pescati”.

Tutto ciò, e finisco, mi sembra sia stato lo stesso approccio di S. Eugenio con i giovani; e, per certi versi, anche gli stessi problemi che riscontrava negli Oblati delle prime due generazioni. Lui personalmente era un “mago” con i giovani. In poco tempo riuscì a mettere insieme un gruppo enorme di giovani nella sola Aix, nelle condizioni difficili che conosciamo. E non tutti erano già dei “bravi ragazzi”, anzi! E lui cercava con i giovani lo stesso approccio: dava Dio, ma si metteva anche al loro ascolto. Sappiamo che dedicava loro tanto del suo tempo “informale”, e che -nonostante fosse duro ed esigente- dedicava loro tanto tempo con “il gioco”. Quando poi diventò vescovo, e dovette lasciare i gruppi che seguiva di persona, questi gruppi si rimpicciolirono e morirono. Perché non c’erano altri Oblati che portavano avanti la “missione con i giovani” con le stesse caratteristiche. C’erano diversi Oblati che erano grandi predicatori, ottimi formatori, santi missionari… ma che non avevano né la voglia né il talento per stare con i giovani. Si volevano limitare alle catechesi senza potere, volere e sapere passare del tempo con loro. E questo fu uno dei grandi “crucci” di S. Eugenio. Di fatto, nonostante insistesse molto, già negli ultimi 15-20 anni della sua vita assistette con rammarico al fatto che gli Oblati si occupassero poco dei giovani A me sembra che spesso la storia si sia ripetuta tante volte e si ripeta ancora oggi nella nostra Congregazione, non solo nella nostra Provincia. Quando un Oblato non ha voglia né disponibilità per dedicarsi a questo ministero secondo queste modalità, pensando che basti predicare o far pregare un po’ i giovani, illudendosi così di dar loro Dio, senza portarli a questa condivisione reciproca, senza cercare in loro dei punti di contatto umani prima ancora che spirituali (o di una spiritualità disincarnata, senza umanità), senza interessarsi a ciò che vivono, senza creare degli spazi in cui possano presentare TUTTA la loro vita a Dio, nel bene e nel male, per poi orientarla a Lui, la pesca si fa difficile. Le reti resteranno vuote.

Del resto, il famoso “uomini, cristiani, santi”, di cosa lo riempiamo? Se non ci interessiamo prima all’umanità ―che credo passi anche per gli aspetti di cui ho parlato―, come possiamo pretendere che un giovane possa entrare davvero in relazione con Gesù (“cristiani”) e quindi scoprire, rispondere e mantenersi fedele al progetto che Dio ha su di lui (“santi”)?

Meditazione di p. Antonio D’Amore all’Assemblea Provinciale
11 febbraio 2021