Pochi giorni fa p. Gigi Sion ci ha lasciati all’età di 90 anni. Originario di Trieste, nella sua lunga vita è stato per molti anni missionario in Laos, compagno del beato Mario Borzaga, poi in Uruguay e in Kenya. 

In una sua lettera dall’Africa, il 20 luglio 1993, scriveva in sintesi quello che era la Missione per lui:

La missionarietà è una conseguenza logica e normale della nostra fede di cristiani, il che significa annunciare con gioia agli altri ciò che noi per Grazia di Dio abbiamo scoperto e viviamo. Oggi la Chiesa continua a mandare i suoi missionari in Corea, in Giappone, ed in altri Paesi che possono benissimo farci i conti in tasca, a noi che ci crediamo i primi della classe. L’idea che è missionario soltanto colui che parte per terre lontane è ormai tramontata, oggi terre lontane non esistono più, ma esistono uomini lontani e sono lontani o perché si sono completamente dimenticati del Vangelo, o perché non ne hanno mai sentito parlare, e questo può succedere anche a Trieste con notevole risparmio su un viaggio fino in Africa o nella Papuasia.

Oggi siamo meno numerosi di un tempo, questo è vero, ma una Chiesa che appoggia tutto sul Vangelo accetta anche il rischio di perdere e il rischio delle defezioni in massa. 

Nel 1957, a soli due mesi dalla mia ordinazione sacerdotale, già mi trovavo nel Laos, Paese che assieme a Vietnam e Cambogia è stato per quasi 20 anni sugli schermi televisivi del telegiornale delle ore 20, e non per ragioni estetiche, ma per il fatto che c’era in corso una guerra che di per sé non è ancora terminata. Su quelle montagne ho incominciato la mia prima vera missione. Qui per forza di cose ho dovuto vivere non soltanto con la gente o per la gente, ma come la gente. Viaggiare come la gente perché non esistevano strade e quindi gli unici mezzi di trasporto erano le gambe o il cavallo. Niente elettricità, niente costruzioni in muratura, soltanto semplici capanne in bambù, paglia e terra battuta, evidentemente niente frigo, niente TV, niente telefono, mandavo i messaggi con grafia greca (per non essere intercettato), niente negozi o supermarket: per la colazione, o per il pranzo, o per la cena camminavamo o bisognava fermarsi con il fucile. 

La gente mi aveva fatto una proposta: tu rimani con noi, curi i nostri mali perché noi siamo stanchi degli spiriti e degli stregoni che non riescono a combinare niente, insegnerai a leggere e a scrivere ai nostri bambini, e noi ascolteremo volentieri la novità della tua religione. Feci tutto quello che essi avevano desiderato e loro fecero altrettanto. Il tempo è passato, quei bambini che allora sudavano sul sillabario anche se rudimentale ora sono uomini, la maggioranza ha dovuto lasciare il Paese e sono sparsi un po’ dappertutto per il mondo, e mi scrivono usando il computer.

In America latina ho fatto per 15 anni le stesse cose: stare, capire, aiutare, vivere come uno di loro.

Ora sono qui in Africa, qui non ci sono villaggi, ognuno vive sulla propria terra. Però abbiamo dei punti di riferimento domenicali, come povere cappelle, una scuola, o semplicemente un grande albero. Come potrei alla mia età e con il carrello di atterraggio parzialmente fuori uso farmi in una mattinata i miei 100 km per celebrare due messe?

La gente non pretende miracoli da noi, ma vuole essere ascoltata, istruita, consigliata, ma, come dappertutto, esiste l’uomo con dignità che sa condividere e contraccambiare anche nella sua povertà, che percepisce il senso cristiano della comunione, come pure esiste l’uomo senza dignità, mentalmente povero, e per questi esiste soltanto il pretendere senza il condividere ed è a questo punto che il lavoro missionario diventa più difficile perché soggetto in questione non solo non crederà alla nostra povertà, ma la disprezzerà disprezzando così gli stessi valori del Vangelo.

Per terminare vorrei buttar giù quello che io penso della Missione.

La missione incomincia con un sorriso,
incomincia attorno a noi
nelle cose di tutti i giorni
che sembrano piatte e senza senso;
il resto è sempre ispirazione
dello Spirito Santo
che può far nascere delle cose meravigliose
in un mondo fatto di musi lunghi
e permanentemente scontenti.