Sette anni fa ci lasciava fratel Antonio D’amico. Ecco un’intervista di pochi anni prima in cui racconta la sua esperienza di vita missionaria:

Allora, Fratel Antonio! Tanti ti conoscono e la tua capacità di accogliere le persone di passaggio allo Scolasticato, ti ha fatto entrare nel cuore di tutti. Raccontaci qualcosa della tua infanzia: come hai capito che Dio ti chiamava ad essere Oblato e Fratello?

Sono nato in Molise, a Jelsi, 74 anni fa in una famiglia di mezzadri. Eravamo 8 figli e si lavorava per vivere. Soldi: pochissimi. Quando si trattò di entrare dagli Oblati, si pagavano 6 lire al mese e mio padre disse: “Li potrei pure pagare, ma poi come faccio a far vivere gli altri 7 fratelli?”. Padre Abramo disse loro di non preoccuparsi: se io volevo essere missionario, non avremmo pagato nulla. Entusiasmato anche dall’esperienza di altri nel mio paese – Donato, Andrea… – che erano già partiti, ho lasciato casa non ben consapevole di voler diventare missionario. Prima si diceva “parto per farmi monaco” e neanche si capiva tanto della vocazione. Sapevo solo che mi sentivo attratto da questa vita.

C’è stato qualche episodio concreto che ti ha orientato verso questa vita, a parte l’esempio dei tuoi compaesani?

Si! Un episodio, piccolo, ma che mi sono sempre portato dentro. Prima non c’era la televisione e la sera mia mamma, intorno al fuoco, ci faceva pregare il rosario. Una sera i miei fratelli più grandi sono usciti e anche io, avevo 12-13 anni, volevo uscire con loro. Ma la mamma mi ha detto: “Dai! Fermati qui che preghiamo il rosario”. Io facevo i capricci e mamma per convincermi a pregare mi disse: “Dai prega! Rispondi, che il Signore ti benedice e ti fa crescere bene”. Io non volli dargliela per vinta e non rispondevo al rosario, ma nella testa registravo tutte le preghiere che diceva mia mamma e mi dicevo: “Poi me le faccio per conto mio!”. Mi sono messo a letto e ho iniziato a pregare tutti i santi che stavano appesi alle mura della stanza e alla fine preso dal sonno mi sono addormentato. A un certo punto ho sognato di essere nella chiesa parrocchiale, vicino alla colonna a cui ho dato una testata tanto forte che la statua della Madonna che stava su di essa ha traballato e stava per cadere. Ed ho sentito una voce che diceva: “Antonio, Antonio, che hai fatto?!”. Mi sono svegliato spaventatissimo ed ho iniziato a pregare. Ho sentito dentro: Io mi devo fare monaco. Non missionario, non una chiamata specifica.

E gli oblati quando li hai conosciuti? Quando sei partito?

Dopo è venuto padre Abramo Sebastiano OMI e ha fatto il giro del paese alla ricerca di vocazioni a fratello, perché c’era la casa di S. Pio X che aveva bisogno di operai. Prima, però, padre Abramo mi ha invitato a passare un periodo a Ripalimosani dove lui era in comunità. Sono partito felice e contento. Mi hanno accompagnato i miei genitori con gli asini. La gente del paese aveva fatto la colletta: mi avevano portato il grano e il pane… All’epoca c’era ancora miseria e i novizi avevano fame. A Ripa ero il più piccolo. Lontano dalla famiglia, non sapevo se piangere e ridere perché mi trovavo in convento. Sono rimasto lì un paio di mesi e nei momenti di sconforto ripensavo al sogno che avevo fatto e ritrovavo la gioia di stare lì. Facevo un po’ da sagrestano, poi c’era padre Abramo che ci teneva sempre in movimento e p. Argentieri Agostino OMI come maestro dei novizi. La prima impressione è stata decisamente bella. Poi mi hanno portato a Santa Maria a Vico con un camion militare. Lì mi sono ritrovato con tre o quattro compaesani ed ho iniziato la vita ordinaria. Si lavorava e come scuola si faceva la lettura spirituale la sera… e quella era la scuola! Io dicevo ai familiari che stavo bene, che stavo studiando… ma in realtà come scuola c’era ben poco! A me in fondo andava bene così: ero piccolo e non ero una cima negli studi. Mi piaceva la vita che facevo.

Sono rimasto a Santa Maria come postulante per quattro anni a lavorare, vangare, ad accudire le mucche, a tagliare l’erba. Poi sono partito di nuovo per Ripalimosani per il noviziato. Li ho ritrovato padre Argentieri e i novizi. È stato in quell’anno che ho iniziato a sentire il desiderio di essere missionario e religioso. Ed è stato lì che ho sentito di voler dare la mia vita a Dio. Ricordo ancora, come fosse oggi, una preghiera che ho fatto al Signore. Gli ho detto “Prima che faccia un peccato mortale fammi morire!”. Nel frattempo si faceva un gran parlare delle missioni, del Polo nord, dell’Africa, di padre Gérard. Io volevo abituarmi alle temperature del Polo nord e così mi toglievo le coperte per abituarmi a sentire freddo… ma così mi sono preso una bronchite così forte che stavo quasi per andarmene all’altro mondo. Sono venuti tutti i miei parenti a vedermi, ma alla fine l’ho scampata!

Passata la malattia mi sono messo a fare il giardiniere e me la sono cavata più che bene: ho messo su un orto di cavolfiori che lasciava tutti a bocca aperta! Poi da un giorno all’altro mi sono trovato ad essere il cuoco del convento: pastasciutta, patate… queste erano le mie specialità. Ma allora si mangiava tutto. Il mio difetto era che sporcavo troppe pentole e gli altri si lamentavano. Poi mancò il cuoco ad Atessa (CH) e mi mandarono lì. Mi dicevano :”Lì inizierai ad abituarti alla solitudine, per quando andrai in missione. Non lasciarti scoraggiare!”.

In verità, tanta solitudine non l’ho trovata e vi sono rimasto, contento, per tre anni. Poi ho girato un po’ per varie comunità: Gesso, via dei Prefetti a Roma, Villalba, San Giorgio (in preparazione ai voti perpetui). Sono tornato a San Pio X.

Iniziava il periodo degli hippy, della contestazione… ma io non me ne intendevo.

Volevo partire per la missione e finalmente il padre Generale mi diede l’obbedienza per il Laos, era il 6 gennaio 1966, l’Epifania. Partimmo in aereo, io, p. Bonometti e p. Natalino Sartor, che sarebbe morto l’anno dopo. Sono arrivato lì senza nessuna preparazione. A parte la scuola che avevo lasciato in terza elementare, non avevo neanche la patente e non conoscevo la lingua. Poi ho preso la patente, ho imparato un po’ di francese ascoltando la radio e partecipando alle lezioni che p. Palmiro faceva ai bambini. Ed è iniziata la mia vita di missionario in Laos: 9 anni e mezzo!

Ti sei trovato in Laos negli anni difficili della guerra, dell’inizio del regime comunista e dell’espulsione. Cosa ci racconti di quel periodo?

Nel primo periodo in Laos mi mandarono al seminario ad aiutare p. Angelo Pelis OMI. Ma, a livello politico, le cose non andavano bene: i comunisti avevano preso il potere e gridavano dappertutto: “È arrivata la pace nel Laos”. Il superiore, p. Walter Verzelletti OMI, ci convocò per una riunione e ci disse che ci avrebbero consentito di rimanere in Laos, però tagliando i ponti con il resto del mondo. Dall’estero non sarebbero più arrivati gli aiuti che fino ad allora ci avevano sostenuto nella missione. Ci chiese chi se la sentiva di rimanere e di lavorare nelle risaie insieme alla gente. Ho sentito che dovevo restare ed ho detto il mio “si”. Prima della chiusura delle frontiere ci hanno permesso di tornare per l’ultima volta in Italia. Sono partito a luglio e poco dopo la situazione in Laos è precipitata: c’è stata l’espulsione degli altri confratelli. Li ho raggiunti a Roma: ho trovato tanti miei compagni in lacrime, alcuni non riuscivano a dormire, tutti erano provati: l’esperienza dell’espulsione è stata davvero dura! Così abbiamo iniziato a girare le varie comunità della Provincia. Sono stati giorni difficili! Soprattutto per alcuni confratelli. Fratel Donato ed io siamo stati un anno alla casa Provinciale, in attesa di una nuova destinazione. Avevamo tre possibilità: Uruguay, Indonesia e Senegal. Solo per il Senegal c’era la possibilità di partire subito. Abbiamo scelto il Senegal. Quelli più giovani scelsero Uruguay e Indonesia.

E così ti sei ritrovato in un altro continente: un’altra cultura da conoscere. Sappiamo che hai passato anni belli anche in Senegal. Ma vorrei chiederti qualcosa sulla tua missione in questi ultimi anni, segnati anche dalla malattia. Cosa ci puoi raccontare?

Mi preme davvero dire qualcosa sulla vita che faccio adesso, della missione che vivo allo Scolasticato. Devo ringraziare ancora una volta il Signore che mi ha dato questa malattia. È una grazia perché, con questa malattia, per quanto sia brutto il fatto che non possa rendermi più utile e che non riesca quasi neanche a leggere, allo stesso tempo faccio l’esperienza della Grazie che mi viene in aiuto. Non so se il Signore mi ha messo un angelo vicino, ma credo che me ne ha messo parecchi: la comunità. Non poteva farmi un dono più bello e grande di questo: farmi vivere questi giorni con i miei confratelli, che mi aiutano a superare tutte le difficoltà.

Certo, pensando alle missioni vissute, sono felice e mi accompagna il ricordo del bene compiuto. Ma pensando ai giorni che vivo adesso, non posso non ringraziare Dio!

Quando, al centro trasfusionale, mi trovo a parlare con i miei compagni di malattia mi accorgo che, per quanto siano voluti bene dalle famiglie, nessuno ha quella libertà interiore che la comunità, i miei fratelli, mi danno. Quando stavo in missione non mi è mai mancato l’aiuto dell’uno o dell’altro.. Qui, però, faccio l’esperienza che è tutta la comunità ad aiutarmi e a volermi bene, dal primo all’ultimo.

A volte non mi so spiegare come questi ragazzi siano così affezionati a me e come Dio mi abbia fatto questa grazia di farmi vivere questi giorni nella pace, nella serenità e di sentire che, nonostante tutto, continuo la mia missione, perché stando in mezzo ai ragazzi, per dirla burlescamente, non mi stufo di dare il buon esempio. Chiedo a Dio di farmi continuare in questa missione fino all’ultimo giorno.

Grazie Fratel Antonio! E buona missione!

(Intervista di Carmine Marrone, Tratto da Missioni OMI 5/2007)